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"Chiamare «società» il popolo di estranei in mezzo al quale viviamo è una tale usurpazione di significato che gli stessi sociologi hanno avuto la decenza di rinunciare a al concetto. Essi preferiscono ora la metafora della rete per descrivere il modo in cui si connettono le solitudini cibernetiche, con cui si annodano le deboli interazioni conosciute sotto al nome di «colleghi», «contatti», «amici», «relazione», o «avventura». Ed ecco che a un certo punto, si arriva a vedere chiaramente come queste reti si condensino in un centro, ma esso sia un centro dove non si condivide nulla, se non dei codici, e dove nulla si attiva, se non l'incessante ricomposizione di una identità." - L'insurrezione che viene
Posted on 07:38

Un fallimento notevole per una giornalista

By Dual_Core alle 07:38

Vorrei iniziare con una correzione anche se si potrebbe pensare, giustamente, che sono una maleducata. Ma in ogni caso a noi, gli israeliani, ci stanno perdonando qualcosa di molto peggio delle cattive maniere.
Ciò che oggi generosamente assegna la International Women's Media Foundation, come la realizzazione di tutta una vita richiede qualche correzione. Perché è un fallimento. Nient'altro che un fallimento. Il fallimento di una vita.
Pensandolo bene, quello di un'intera vita è discutibile, dopo tutto, è stato un terzo della mia vita, non di più, quello che ho dedicato al giornalismo.
Inoltre, "tutta la vita" potrebbe dare l'impressione che presto andrò in pensione, e ci sarebbe anche quello da correggere. Non ho alcuna intenzione di lasciare quello che sto facendo.


Amira Hass, figlia di due sopravvissuti all'Olocausto (Bergen-Belsen) - sua madre era  comunista nata a Sarajevo nel 1913 - è nata a Gerusalemme nel 1956. Scrittrice israeliana e giornalista del quotidiano Haaretz, è conosciuta soprattutto per vivere nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania e da lì informa sugli eventi del conflitto israelo-palestinese dal punto di vista palestinese, nelle colonne del giornale israeliano. Ha iniziato la sua carriera giornalistica come redattrice di Haaretz e iniziò a riferire dai territori palestinesi nel 1991. Nel 2003 è stata l'unica giornalista ebreo israeliana a vivere a tempo pieno tra i palestinesi a Gaza dal 1993, e a Ramallah dal 1997.

Che cosa sto facendo? In generale, mi definiscono come un giornalista specializzata in affari palestinesi. Ma in realtà le mie inchieste trattano sulla società e la politica israeliana, riguardo il dominio e l'ubriachezza. Le mie fonti non sono documenti segreti o fughe di notizie non ufficialile di decisioni prese durante le riunioni del potere o dalla persone con il potere. Le mie fonti sono le strade aperte in cui hanno spogliato i sottomessi dai loro diritti uguali a quelli di altri esseri umani.
C'è ancora molto da imparare su Israele, sullla mia società e su chi prende le decisioni in Israele,dove  hanno inventato restrizioni come: gli studenti di Gaza non possono studiare in un'università palestinese in Cisgiordania e 70 km da casa. Un altro divieto: quelli oltre i 18 anni non possono andare a visitare i loro genitori a Gaza a vedere se i genitori stanno bene e sono sani. Se stessero morendo, i funzionari israeliani permetterebbero la visita, o se i figli sono sotto i 18 anni. Ma d'altra parte, i parenti di secondo grado non sono autorizzati a visitare i suoi fratelli, sani o moribondi, a Gaza.

E 'una questione filosofica interessante, non solo giornalistica. Pensateci: Come stabilisce il preoccupato sistema israeliano che i genitori siano ragionevolmente sani? Perché la preoccupazione che un giovane abbia accesso a un'istruzione migliore? E questi sono solo due di una lunga lista di divieti israeliani.
O quando scrivo per il territorio della Cisgiordania palestinese progressivamente decimato e frammentato. Non si tratta solo di persone che hanno perso le loro proprietà di famiglia e dei loro mezzi di sussistenza, non solo di opportunità, sempre più piccole, di persone in enclavi affollati ed isolati. In realtà è una storia sulle capacità degli architetti israeliani. E 'un modo per imparare che i pianificatori israeliani, sul terreno si contraddicono con le dichiarazioni ufficiali, un fenomeno che caratterizza le attuazioni di tutti i governi israeliani, nel passato e nel presente. In breve, c'è molto per tenermi occupata durante un altra vita, o almeno durante il resto della mia vita.

Ma come ho detto, la correzione vera è altrove. Non è un trionfo di cui dobbiamo si parla qui, ma di un fallimento.
E' il fallimento della pretesa che il pubblico israeliano e internazionale, utilizzi ed accetti i termini e le parole giuste che  riflettono la realtà. Non la neolingua orwelliana che è fiorita a partire dal 1993 ed è stata ingeniosamente resa e diffusa da coloro che hanno interessi opposti.
La terminologia del processo di pace, che ha preso il regno, cancella la percezione del processo reale che è in corso: una speciale di miscela di occupazione militare, colonialismo, apartheid, autogoverno palestinese in enclave isolato e una democrazia per gli ebrei.
Non è il mio ruolo di giornalista, fare in modo che miei colleghi e ebrei ed israeliani concordino sul fatto che questi processi sono immorali e pericolosamente imprudenti. Il mio ruolo è, tuttavia, esercitare il diritto di libertà di stampa, fornire informazioni e farsì che la gente sappia. Ma come ho già dolorosamente scoperto, il diritto di sapere non significa il dovere di conoscere.

Migliaia di miei articoli e milioni di mie parole si sono evaporati. Essi non possono competere con la lingua ufficiale che è stata felicemente adottata dai mezzi di comunicazione di massa e utilizzata per distorcere la realtà. Un linguaggio formale che incoraggia le persone a non sapere.

Di fatto, un fallimento notevole per una giornalista.



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